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LA VITA E' UN MIRACOLO
(ZIVOT JE CUDO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 4 marzo 2005
 
di Emir Kusturica, con Slavo Stimac, Vesna Trivalic, Aleksandar Bercek, Dvor Janjic, Mirjana Karanovic (Repubblica Federale Yugoslava, 2004)
 
Foto Aleksandar Letic/Les films Alain Sarde
Sono sei gli anni che ci separano da GATTO NERO, GATTO BIANCO; ma l'inizio di LA VITA E' UN MIRACOLO sembra lasciar credere che nulla sia mutato nel caleidoscopio barocco di Emir Kusturica. La frenesia di un racconto che rifiuta ogni progressione lineare, frantumato com'è in mille istanti di una sarabanda che accomuna i personaggi agli ambienti, i suoni alle musiche, le danze agli echi della presenza della natura. La sensualità degli uomini che si accompagna alla presenza degli animali, all'energia dei corpi che sembrano isolarsi all'interno delle situazioni.

Ma quella prima sequenza di una serenità quasi pastorale, iscritta nelle linee armoniose di un altopiano bosniaco filmato con una grazia melanconica che non riconoscevamo all'autore di UNDERGROUND, non dovrebbero renderci attenti? Difficile, quando subito si è ripresi dal vortice di quel 1992 che irrompe nell'idillio bucolico a frastornare un universo fatto di canti e pistolettate, di un bestiario ancestrale di oche, cani, gatti e piccioni. Arriva la ferrovia, che finalmente avvicinerà altri uomini, la Serbia, gli scambi, l'era moderna. E la guerra.

Ma è proprio quando questa metafora si fa assordante al punto di sembrarci insostenibile che all'irruenza della fanfara subentra la contemplazione del flauto. LA VITA E' UN MIRACOLO riesce allora a mutare, quasi in omaggio al proprio titolo. In uno di quei nuclei famigliari che il regista favoleggia, quello di Luka, l'ingegnere ferroviario catapultato lassù da Belgrado, irrompe Sabaha; l'infermiera mussulmana da custodire in ostaggio preziosamente, poiché dovrà essere scambiata con il figlio di Luka, prigioniero In Bosnia. Non è allora più soltanto la guerra, seppure vista di traverso, attraverso la lente deformante del grottesco e dell'umorismo nero che permette di fare l'amore sotto le bombe o il mirino degli sniper. E' un dilemma nuovo, che il regista nato in Bosnia da genitori serbi si sbilancia a definire shakespeariano: l'angoscia del padre costretto a scegliere fra l'amore per il proprio figlio e quello per la propria donna.

Eccolo allora, e soprattutto, il vero miracolo: quello che introduce nell'universo tutto corale, utopico e coreografico, inarrestabilmente cinetico di Kusturica, in progressione squisitamente armonica, la calma e la contemplazione. Una emozione del tutto inedita nell'avvicinarsi all'intimità dei sentimenti, allo spazio privato di una coppia. Tutte cose che sembravano impossibili al maestro di tanti, più o meno gioviali girotondi collettivi.

Prima di essere ripresi dalla contemporaneità dei Caschi blu di un finale che continua comunque a cercare sollievo nel grottesco, i due protagonisti avranno vissuto in una dimensione fuori dal tempo, scandita dai ritmi della natura piuttosto che da quella degli uomini. E il cinema di Kusturica, il passaggio infinitamente prezioso dalla follia ipnotica del gruppo ad un lirismo che sfocia in un incontro, ormai più panteista che sensuale, con l'intimità dell'uomo e della natura.


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